Tracce visibili dell’esistenza
“Ma poi che importa? È minima la
parte di ciascuno e splendido il poema”
Mario Luzi
dal Viaggio terreno e celeste di Simone Martini
Le pitture di Damiano Durante qui esposte inducono non in una ma in molteplici tentazioni, la più forte delle quali è sicuramente l’esigenza di definire, circoscrivendola, l’esperienza figurativa e tecnica dell’autore, dato il felice ritorno, per noi, certo non per lui, alla visione di un figurativo tout court, cui il nostro occhio non sembra più avvezzo. E poiché tutti siamo cedevoli alle tentazioni, finiamo con l’arrenderci alla più seducente delle lusinghe che ci spinge, con ostentato coraggio e orgogliosa competenza a dire che Durante è un pittore certamente simbolista; altri invece si lasceranno lusingare dall’evidente realismo che vede il mondo in modo fotografico e diranno persuasi: Durante è un nuovo maestro del naturalismo realistico, anzi un iperrealista senza nessuna ombra di dubbio! E la disputa nella tentazione potrebbe anche protrarsi a lungo, raggiungendo il culmine della temerarietà con l’individuazione nelle Nature Morte del nostro giovane maestro, di evidenti tracce di un mondo profondo, notturno, oscuro, rivelatore di quel subconscio così caro ai surrealisti…
Tutte interessanti e accattivanti, le nostre tentazioni di fronte alla pittura di Damiano Durante, ma nulla a che vedere, a mio giudizio, con la logica dello sguardo e la nuova ontologia della visione che vengono fuori dalle sue opere, e che staccano tutto il suo operato figurativo da ogni possibile definizione, pur comprendendo nel suo vissuto le esperienze storiche della tradizione figurativa europea. Egli propone nei suoi quadri un “ritorno alle cose” (Husserl) del mondo, di quel mondo di cui la conoscenza e la pittura sempre parlano, coi rispettivi linguaggi, così come la geografia parla del territorio; la pittura è per Durante il luogo con cui si accede all’esperienza dell’Essere e da cui, per magia o per divina visitazione si dipanano una scia di analogie, di riferimenti simbolici, di rimandi interiori che tornano in superficie, sotto varie forme, chiamate dal nulla e prendenti la forma ora di un bicchiere, ora di una bottiglia, di una candela accesa, di uno strumento musicale, di un arbusto vegetale, di un dettaglio anatomico, di un viso, di uno sguardo, di un fiore, di un getto d’acqua, di un frammento di statua, di un tavolo piuttosto che una sedia, tutti elementi della realtà di cui il pittore intende svelarne i misteri latenti, le segrete anime, i legami più o meno profondi che li uniscono a noi.
Certo la pittura di Durante è inquietante, nelle sue forme lucide e vigilanti che presuppongo un pensiero altrettanto lucido e desto, ed è forte un certo senso di straniamento che si avverte durante la visione; sembra quasi di riascoltare le parole di Isidore Ducasse, il Conte di Lautremont che ridefiniva l’esperienza del bello come il risultato dell’incontro fortuito “di un ombrello e di una macchina da cucire su un tavolo operatorio”. Ma l’esito finale della pittura di Durante è radicalmente diverso dallo spaesamento surreale come di quello metafisico. Nella sua pittura si manifesta quell’unità tra soggetto e oggetto di cui si parla anche in tanta buona filosofia contemporanea, laddove i nostri occhi portano alla luce l’esperienza del proprio Essere nell’unità fra sé e le cose del mondo. Ed ecco allora che le Nature Morte rinascono a vita nuova e gli oggetti ritratti ci restituiscono sguardi acuti e penetranti, anzi sembrano quasi loro a guardarci per primi. Si apre così una “dimensione umana della visione” (Merleau-Ponty) in cui ciò che vedo con i miei occhi è ciò che vivo all’interno della mia esperienza, un’esperienza contemporaneamente individuale e collettiva, immediatamente e per sempre riconoscibile. E difatti in questi quadri esiste uno spazio delle cose e delle azioni che spesso è negato in tanta arte contemporanea.
Durante è assistito da una tecnica straordinaria e da una conoscenza intima, confidenziale, coniugale direi con la pittura. Egli si serve della tecnica come uno strumento privilegiato per analizzare la realtà nei suoi aspetti più segreti e, solo apparentemente, più evidenti, ricercando con metodo sempre nuovi effetti poetici e lirici che ci sconvolgono, ci turbano, mettendo in scena oggetti tratti dalla realtà. Immagini chiare e nitide che tuttavia evocano un profondo senso del misterioso e dell’infinito, che richiamano anche il lessico cinematografico del miglior Kieslowski della trilogia dei tre colori.
Ma il mistero tanto evocato dalla sua pittura qui diventa improvviso rischiaramento, si tratta del mistero dell’immagine che, come diceva San Giovanni Damasceno, non è semplice replica della realtà ma è realtà interiore che diventa carne, nel vissuto di un’esperienza, per tutti e per ciascuno, del miracolo dell’esistenza.
Solo così ci diventa chiara la riflessione artistica di Damiano Durante che non si sofferma in queste Nature Morte sul’aspetto mimetico della pittura, cosa in fondo banale e riduttiva, certamente non riproponibile oggi; egli va ben oltre, indaga l’eternamente rischioso rapporto tra la realtà e la sua immagine dipinta, tra il mondo in cui viviamo e la nostra rappresentazione, tra le cose e le forme dipinte delle cose. La scommessa finale ha un’altissima posta in gioco, tant’è che non è tanto l’immagine creata a conformarsi al modello, ma il modello all’immagine, che non è replica di alcunché, ma è fonte di nuova vita, che pensa, che vive, che respira, che ama…
Alfonso Di Muro
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